La Corte Costituzionale, con la sentenza depositata l’1 aprile 2021 col numero 59, ha dichiarato incostituzionale l’articolo 18, settimo comma, secondo periodo, dello Statuto dei lavoratori – così come modificato dalla “riforma Fornero” – per violazione dell’articolo 3 della Costituzione (che, come noto, codifica il principio di uguaglianza sostanziale e di non discriminazione).
La Consulta ha in particolare rilevato l’illegittimità della succitata norma dello Statuto dei Lavoratori nella parte in cui prevede che il Giudice, una volta accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative, “possa” e non “debba” applicare la tutela reintegratoria (attenuata).
Invero, la Corte ha rilevato che “..nel contesto dell’art. 18, settimo comma, dello statuto dei lavoratori, al perentorio «applica» del primo periodo fa riscontro il «può applicare» del secondo periodo e sottende, secondo il significato proprio delle parole, una facoltà discrezionale del giudice..”, ritenendo che tale facoltà discrezionale di concedere o negare la reintegrazione, contrasta con l’articolo 3 della Costituzione.
Ed infatti, sebbene il legislatore goda di un ampio margine di apprezzamento nell’apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona del lavoratore illegittimamente licenziato (che ben possono essere differenti rispetto alla reintegra nel posto di lavoro), lo stesso è pur sempre vincolato al rispetto dei princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza.
La disposizione di cui al comma 7 dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, in riferimento ai licenziamenti economici, entra tuttavia in conflitto con tali princìpi, in quanto:
- in primo luogo, in un sistema che annette rilievo al presupposto comune dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l’applicazione della tutela reintegratoria tanto nel caso di dei licenziamenti disciplinari quanto in quelli per giustificato motivo oggettivo “..si rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte di una inconsistenza manifesta della giustificazione addotta e del ricorrere di un vizio di più accentuata gravità rispetto all’insussistenza pura e semplice del fatto…”;
- inoltre, “..le peculiarità delle fattispecie di licenziamento, che evocano, nella giusta causa e nel giustificato motivo soggettivo, la violazione degli obblighi contrattuali ad opera del lavoratore e, nel giustificato motivo oggettivo, scelte tecniche e organizzative dell’imprenditore, non legittimano una diversificazione quanto alla obbligatorietà o facoltatività della reintegrazione, una volta che si reputi l’insussistenza del fatto meritevole del rimedio della reintegrazione e che, per i licenziamenti economici, si richieda finanche il più pregnante presupposto dell’insussistenza manifesta..”, atteso peraltro che l’esercizio arbitrario del potere di licenziamento (sia quando adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente sia quando si appella a una ragione produttiva priva di ogni riscontro) lede l’interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore;
- ed ancora, appare evidentemente irragionevole il fatto che, per i licenziamenti economici, il legislatore “..non solo presuppone una evidenza conclamata del vizio, che non sempre è agevole distinguere rispetto a una insussistenza non altrimenti qualificata, ma rende facoltativa la reintegrazione, senza offrire all’interprete un chiaro criterio direttivo..”. In tal modo, la scelta tra due forme di tutela profondamente diverse – quella reintegratoria, pur nella forma attenuata, e quella meramente indennitaria – è rimessa a una valutazione del giudice disancorata da precisi punti di riferimento;
- peraltro la tutela indennitaria non può dirsi equivalente nè a quella reintegratoria né a all’indennità sostitutiva della reintegrazione, prevista dal terzo comma dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, non essendo peraltro a tal fine nemmeno utile il richiamo all’istituto dell’eccessiva onerosità (declinata come incompatibilità con la struttura organizzativa nel frattempo assunta dall’impresa), che presuppone valutazioni comparative non lineari nella dialettica tra il diritto del lavoratore a non essere arbitrariamente estromesso dal posto di lavoro e la libertà di iniziativa economica privata e non serve a individuare parametri sicuri per la valutazione del giudice nel riconoscimento di due rimedi – la reintegrazione o l’indennità – caratterizzati da uno statuto eterogeneo.
La Corte Costituzionale afferma pertanto che nel demandare a una valutazione giudiziale sfornita di ogni criterio direttivo – perciò altamente controvertibile – la scelta tra la tutela reintegratoria e la tutela indennitaria, la disciplina censurata “..contraddice la finalità di una equa ridistribuzione delle «tutele dell’impiego», enunciata dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge n. 92 del 2012..” e che “..l’intento di circoscrivere entro confini certi e prevedibili l’applicazione del più incisivo rimedio della reintegrazione e di offrire parametri precisi alla discrezionalità del giudice rischia di essere vanificato dalla necessità di procedere alla complessa valutazione sulla compatibilità con le esigenze organizzative dell’impresa…”
Di conseguenza, viene dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al quarto comma del medesimo art. 18.
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