Nota a sentenza pubblicata sul sito dello Studio Scuderi – Motta
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Il Consiglio di Stato, con la recente sentenza del 3 ottobre 2022 numero 8448, si è pronunciato in merito alla corretta liquidazione del risarcimento del danno conseguente all’illegittimità dell’azione amministrativa, esprimendo interessanti princìpi in materia.
Il caso concreto
Il caso di specie trae origine dalla procedura concorsuale, indetta dal CNR, per i Ricercatori, da ultimarsi entro il 31 dicembre 2002, per il passaggio al livello superiore di Dirigente tecnologo, con decorrenza giuridica ed economica dal 31 dicembre 2001.
Il ricorrente ha partecipato alla suddetta procedura (collocandosi utilmente in graduatoria), la quale si concludeva nel 2006.
Gli atti della procedura venivano tuttavia impugnati da altro candidato innanzi al TAR Lazio, il quale – nel 2010 – li annullava, ritenendoli illegittimi.
Medio tempore, nel novembre 2010, il ricorrente veniva collocato a riposto per sopraggiunti limiti di età.
Successivamente, nel 2012, il Consiglio di Stato disponeva il rinnovo dell’intera procedura, la quale veniva conclusa dal CNR nel 2013 (in cui l’interessato veniva collocato al terzo posto) e si procedeva alla nomina dei vincitori stabilendosi che gli stessi erano solo i lavoratori in servizio al momento della emanazione della graduatoria.
Il giudizio di primo grado
Orbene, essendo stato posto in quiescenza in data anteriore alla graduatoria del 2013, il ricorrente impugnava innanzi al TAR Lazio gli atti della procedura concorsuale, censurandoli per violazione di legge ed eccesso di potere, chiedendo – tra l’altro – la condanna del CNR al risarcimento dei danni da provvedimento illegittimo, ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, con pregiudizio da quantificarsi in relazione alle differenze retributive e di contributi previdenziali e per la buona uscita intercorrenti tra i livelli di Ricercatore e Dirigente, dal 31 dicembre 2001 al 29 novembre 2010.
Il TAR Lazio accoglieva il ricorso sotto il profilo risarcitorio, ritenendo sussistente:
– la condotta illecita dell’Amministrazione, integrata dall’illegittimità degli atti posti in essere, carenti di motivazione in sede di attribuzione dei punteggi ai candidati e di fissazione dei presupposti criteri di valutazione dei titoli;
– il danno prodotto derivante dalla mancata promozione del ricorrente;
– il nesso di causalità tra condotta e pregiudizio, perché, se l’Amministrazione avesse in origine proceduto correttamente, avrebbe concluso il procedimento in epoca (22 giugno 2006) in cui l’interessato era ancora in servizio;
– la colpa del soggetto pubblico, che definiva la procedura senza dar conto delle ragioni di attribuzione dei punteggi, in spregio dei più elementari princìpi che presiedono lo svolgimento di tutti i procedimenti amministrativi e in particolare di quelli concorsuali.
La sentenza poi, quantificava il risarcimento del danno parametrandolo alle differenze retributive tra il livello di Ricercatore e quello di Dirigente, dal 31 dicembre 2001 al 29 novembre 2010, con maggiorazione degli interessi al saggio legale e della rivalutazione monetaria, secondo il relativo indice ISTAT, unitamente alle differenze dei contributi previdenziali e ai fini della buonuscita.
Il giudizio di secondo grado
La sentenza del TAR Lazio veniva impugnata dal CNR per violazione di legge (onere della prova ex art. 2697 c.c. sussistenza dei presupposti di cui all’art. 2043 del c.c.).
A dire dell’amministrazione, infatti, il ricorrente non avrebbe provato la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento dei danni, e sarebbe stato comunque erroneo il quantum liquidato dal TAR (non dovendo essere corrisposto al ricorrente l’intero importo delle differenze retributive, e dovendo essere esclusa la domanda di reintegro del trattamento previdenziale e di quiescenza).
La decisione del Consiglio di Stato
Il Supremo Consesso, con la decisione in esame, ha dichiarato l’appello del CNR solo parzialmente fondato, unicamente al profilo del quantum del risarcimento.
In particolare, i Giudici di Palazzo Spada, in merito all’an delle spettanze risarcitorie, hanno osservato che sussistessero tutti gli elementi costitutivi della riconosciuta responsabilità ex art. 2043 c.c. del CNR (condotta illecita della P.A., danno prodotto al ricorrente, nesso di causalità tra condotta e pregiudizio e colpa del soggetto pubblico), evidenziando in particolare l’inesistenza di errore scusabile tale da escludere l’elemento soggettivo dell’illecito, considerato tra l’altro che – come pacifico in giurisprudenza – la colpa può ritenersi sussistente sulla base di presunzioni semplici, 2727 e 2729 c.c., in forza della stessa illegittimità dell’agere amministrativo, salva la possibilità per la P.A. di dimostrare la presenza di un errore scusabile …che può essere ricondotto alla sussistenza di un contrasto giurisprudenziale sull’interpretazione di una norma, di un fatto altamente complesso o dell’influenza di altri soggetti.
In relazione al quantum della pretesa risarcitoria liquidata nella sentenza di prime cure, i Giudici di Palazzo Spada hanno invece espresso i seguenti princìpi:
– in osservanza dell’articolo 1223 cod. civ., applicabile anche alla quantificazione del danno derivante da responsabilità extracontrattuale per il rinvio dell’art. 2056, il risarcimento del danno deve essere quantificato in misura tale da porre il danneggiato nella medesima situazione in cui si sarebbe trovato qualora l’illecito non si fosse verificato;
– il risarcimento del danno pertanto non deve né arricchire, né impoverire il danneggiato (c.d. principio dell’indifferenza) con il conseguente corollario per il quale il risarcimento non può creare a favore del danneggiato una situazione migliore di quella in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non fosse avvenuto;
– nel caso specifico, vengono in rilievo gli articoli 19, comma 2, e 24 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (T.U. Pubblico Impiego) e i CCNL per l’area dirigenza degli enti di ricerca, i quali definiscono il trattamento economico del dirigente distinguendo tra: a) stipendio tabellare; b) retribuzione individuale di anzianità, maturato economico annuo, assegni “ad personam”, ove acquisiti e spettanti in relazione a previgenti contratti collettivi nazionali; c) retribuzione di posizione parte fissa; d) retribuzione di posizione parte variabile; e) retribuzione di risultato;
– in particolare, la retribuzione di posizione, sia nella parte fissa, sia nella parte variabile, è diretta a compensare il dipendente degli oneri, le responsabilità e anche i disagi in qualche modo collegati all’espletamento dell’incarico dirigenziale; la retribuzione di risultato è invece strettamente collegata all’esercizio delle funzioni poiché dipende dal raggiungimento degli obiettivi predeterminati e fissati dall’organo di vertice dell’amministrazione e dunque ancora una volta legato all’impegno e alla capacità con la quale l’incarico conferito è stato espletato.
Orbene, sulla scorta di tali princìpi e norme, il Consiglio di Stato ha osservato che il TAR Lazio – nell’aver riconosciuto all’appellante l’integrale retribuzione spettante al dirigente, ivi compresa la retribuzione di posizione e quella di risultato – ha violato le succitate norme attribuendo al lavoratore in una situazione migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovato se non avesse subito l’illecito (in quanto, a fronte della medesima retribuzione, avrebbe risparmiato le sue energie fisiche e intellettuali per un’attività, quella dirigenziale, richiedente certamente maggiore impegno in termini di orario di lavoro, responsabilità, impiego delle capacità professionali e delle cognizioni tecniche).
Sicché, dal calcolo delle differenze retributive da corrispondere a titolo risarcitorio doveva essere esclusa la retribuzione di posizione e quella di risultato.
I Giudici di Palazzo Spada hanno infine rilevato l’erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui è stata riconosciuta al lavoratore la spettanza anche delle differenze dei contributi previdenziali, senza debitamente considerare che i contributi previdenziali non vanno versati al dipendente ma alla cassa di previdenza ai fini della corresponsione del trattamento di quiescenza e che la sentenza medesima non ha ordinato al CNR di riprovvedere alla ricostruzione della carriera del ricorrente – anche a fini previdenziali – ma si è limitata a riconoscere la domanda subordinata di risarcimento del danno per equivalente; pertanto non risulta congruente il riconoscimento della corresponsione delle differenze dei contributi previdenziali (che avrebbero dovuto essere versati alla cassa di previdenza).
Hanno inoltre rilevato che – come statuito da un recente precedente del medesimo CdS reso in sede di ottemperanza in relazione al danno derivante da ritardata assunzione – “ai fini pensionistici rilevano i soli periodi in cui, atteso lo svolgimento della prestazione lavorativa, sia stato effettuato il versamento dei relativi contributi. Pertanto, non spetta l’ammontare del trattamento previdenziale non goduto nel periodo intercorrente tra la data in cui sarebbe dovuta intervenire l’assunzione e la data di effettiva assunzione” (Consiglio di Stato, sentenza 30 marzo 2021 n. 2670).
Pertanto, considerazioni analoghe varrebbero anche in relazione al danno connesso alle differenze del trattamento previdenziale connesso alla superiore qualifica, che avrebbe dovuto essere acquisita ove la procedura si fosse svolta ab initio in maniera legittima, atteso che la sentenza di prime cure ha riconosciuto il solo risarcimento per equivalente richiesto in via subordinata, senza riconoscere il risarcimento in forma specifica correlato alla ricostruzione ora per allora della carriera (anche a fini previdenziali).
Il Consiglio di Stato ha quindi parzialmente accolto l’appello nel CNR, riformando la sentenza impugnata.
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